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Erri De Luca, l’invincibile

Nicolas Bonnet

Résumé

Erri De Luca évoque son engagement politique dans la gauche extraparlementaire dans de nombreux textes relevant de différents genres et régimes discursifs : essais, récits fictionnels, récits à mi-chemin entre l’autobiographie et
l’autofiction etc.
S’il ne désavoue dans aucun de ses textes les valeurs révolutionnaires pour
lesquelles il a combattu et ne cesse de protester de sa solidarité à l’égard
des anciens compagnons condamnés et incarcérés, il y aborde également la question de la responsabilité individuelle et collective inhérente à toute action politique et s’interroge sur l’issue hautement problématique de ces années de lutte.

Texte intégral

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Rispondendo a Stefano Tassinari che, in un’intervista del 2003, gli chiedeva perché non avesse affrontato la storia del suo impegno politico negli anni Settanta in modo compiuto in un grande romanzo bensì in maniera frammentaria attraverso “microstorie”, De Luca spiega:

Probabilmente perché questa nostra storia […] è stata verbalizzata dalle cancellerie di tribunale, che ne hanno dato la loro versione definitiva. Ciò vuol dire che solo attraverso delle piccole fratture, delle piccole crepe nel sottosuolo, emergono delle versioni di parte. Noi da molti anni […] facciamo delle versioni di parte, di parte lesa della storia, e, operando da sotto, dobbiamo aggrapparci forte al frammento[1].

Giocando sulle parole come è solito fare, De Luca chiama la versione della storia che lui ed i suoi ex compagni propongono nei loro scritti una “versione di parte”, cioè per definizione parziale e conseguentemente sospetta: “faziosa”, poi ripete il sostantivo e aggiunge il qualificativo “lesa” trasformando e capovolgendo così radicalmente il valore dell’espressione che assume il suo significato giuridico. Lo scrittore non attribuisce alla propria scelta della forma frammentaria una motivazione di ordine estetico bensì politico: di fronte alla versione ufficiale “verbalizzata dalle cancellerie di tribunale”, versione massiccia e univoca imposta da chi ha interesse a mettere il coperchio sopra alle testimonianze non omologate degli attori di quel periodo, il rappresentante della “parte lesa” della storia non avrebbe altro spazio per fare sentire la sua voce discordante che le “piccole fratture”, le “piccole crepe” da lui faticosamente praticate in quella fitta cappa di bugie.

A proposito della ricezione del teatro politico di Dario Fo negli anni Settanta, De Luca ricorda:

Allora a caldo si sbatteva in faccia ai poteri del tempo la verità negata a oltranza ufficialmente. Negazione arrivata fino ai giorni nostri con l’assoluzione di ogni colpevole per la carneficina del 12 dicembre 1969 nella Banca dell’Agricoltura a Milano. In quegli anni fuori dalle aule togate e drogate di “omissis”, la verità batteva le pubbliche piazze e usava il teatro, sempre più pronto di riflessi e più democratico del cinema. Dario Fo col suo Mistero Buffo seminava coscienza civile nel paese. / Ma questi non sono tempi da afferrare per il bavero il potere grosso[2].

Forse perché ritiene che l’opinione pubblica, troppo condizionata dai media di massa, non sia pronta a recepire l’espressione di un’altra “verità”, De Luca sperimenta approcci alternativi, allusivi ma non elusivi, trattamenti indiretti della materia. La stessa diversificazione dei generi da lui adottati potrebbe rientrare in questa strategia: non solo il racconto, il saggio o la cronaca, ma il poema in versi liberi, quale La ballata per una prigioniera[3], o l’omaggio A Paolo Persichetti prigioniero[4], senza dimenticare l’esegesi biblica, come il commento alla traduzione dei dodici primi versi del capitolo 25 del Levitico, volumetto pubblicato nel 1999 col significativo titolo: L’urgenza della libertà, cogliendo l’esegeta sui generis nell’anno del giubileo l’occasione di un solenne richiamo all’amnistia per tutti i prigionieri politici[5]. Insomma, nessuna forma di scrittura rimane estranea alla scottante tematica degli anni della rivolta. Essa alterna e s’intreccia con altre tematiche tutte di natura squisitamente autobiografica: la successiva esperienza lavorativa come operaio in Italia e all’estero, Napoli, l’esilio e il viaggio, le missioni umanitarie in Africa o nell’ex Iugoslavia, l’amore, la fede (che gli manca), la scrittura…

Senza la parola patria

Militante della sinistra extraparlamentare negli anni Settanta, Erri De Luca ha condiviso con molti suoi coetanei la convinzione marxista che i proletari di tutto il mondo erano destinati ad unirsi. “Una volta si diceva che gli operai erano gente che non aveva nazione”, ricorda uno dei personaggi di Aceto, Arcobaleno[6]. Il saggista puntualizza:

Da giovane ho aderito a lungo a una gioventù rivoltosa e comunista che ripeteva il motto: il proletariato non ha nazione. Gli operai, gli sfruttati, secondo quella convinzione, erano compatrioti di altri come loro oltre i confini, ben più che dei loro concittadini di ceto borghese. Perciò patria è un termine fuori del mio dizionario e forse lo sto scrivendo qui per la prima volta[7].

L’ex responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua, che non ha mai rinnegato il suo impegno rivoluzionario ed è rimasto fedele ai valori dell’internazionalismo, aderisce oggi al movimento altermondialista. Ed è, a dispetto dell’apparente contraddizione, sostanzialmente alla stessa ideologia universalistica che va ascritta la sua partecipazione a tante missioni umanitarie organizzate dalla Caritas, prima in Africa, poi nell’ex Iugoslavia.

De Luca si definisce “uno senza la parola patria” perché considera, dagli anni dell’adolescenza, che il vocabolo infangato dall’uso che ne ha fatto il fascismo è ormai inutilizzabile: “A casa nostra la parola patria era inesorabilmente accoppiata all’esperienza buffa e tragica del fascismo.”[8] Dopo la fallimentare e disastrosa avventura della dittatura, ogni forma di patriottismo sarebbe diventata improponibile in quanto rappresenterebbe necessariamente un’espressione larvata del vecchio nazionalismo[9].

Il narratore de La gonna blu afferma che la sua generazione “era la prima che si scrollava di dosso le conseguenze catastrofiche della parola patria”[10]. A questa, De Luca dichiara di preferire “delle varianti come: matria, fratria, tanto per dare un cambio ai padri, monete fuori corso”[11]. Agli occhi dello scrittore, il valore fiduciario della figura paterna si è esaurito. Essa è demonetizzata, irrimediabilmente screditata; l’unica forma di autorità incontaminata è quella materna[12]. La verticalità dell’autorità paterna squalificata è soppiantata dall’orizzontalità della solidarietà fraterna, alla patria subentra la “fratria”. “Ho conosciuto la fraternità, io che non avevo fratelli”, afferma De Luca in Altre prove di risposta[13].

“Non ero di niente e di nessun luogo. Ero uno dei molti, che a volte erano pochi a contarli in un cortile di questura, in mezzo a un’indurita rappresaglia di uomini in divisa”, dichiara il narratore protagonista della novella La camicia al muro[14].

Solo l’esperienza della militanza politica condivisa da gran parte di una generazione è stata capace di conferire per un certo periodo una consistenza al “noi”[15] prima che questo soggetto collettivo si disgregasse e si disperdesse negli anni del cosiddetto riflusso. Lo scrittore, che non ha mai sconfessato il proprio impegno passato, afferma tuttora di non sapere provare “sentimenti di appartenenza”[16] e di sentirsi “in disparte della comunità nazionale”[17]. Solo se gli ex compagni incarcerati o in esilio, “i vinti”, venissero condonati − a sancire la riconciliazione nazionale − egli potrebbe forse sentirsi di nuovo parte della comunità politica.

Noi

In una delle cronache pubblicate su Il Manifesto tra il 1998 e il 1999, rivolgendosi ad una giovane militante, De Luca afferma: “Io appartenevo alla più vasta stesura del pronome ‘noi’ che una generazione di questo paese abbia mandato in piazza.”[18] Anche se De Luca non si riferisce mai esplicitamente al filosofo francese, lo stile col quale rievoca l’esperienza degli anni di militanza ricorda quello del Sartre della Critica della ragione dialettica. Il “noi” di cui parla De Luca in tanti suoi saggi o racconti è il “noi-soggetto” del “gruppo” che Sartre contrappone al “noi-oggetto” del “collettivo”. Mentre il collettivo è “una pluralità di solitudini”, “una pluralità di separazioni”[19], il gruppo, definito dal rapporto di cooperazione, è “il contrario di uno”; mentre il collettivo è caratterizzato dal pratico-inerte, votato alla stanca ripetizione, il gruppo è contrassegnato dalla prassi intenzionale e creativa. De Luca insiste sul carattere spontaneo del movimento rivoluzionario. Il gruppo in fusione avrebbe saputo evitare il rischio di una ricaduta nell’oggettivazione inerente alla sua istituzionalizzazione, restando per anni un soggetto vivo e inventivo.

Nell’intervista del 2003 concessa a Stefano Tassinari, egli dichiara:

Quella generazione si è posta malissimo e poco il problema del potere, della presa del potere, mentre molto di più si è accanita nell’inceppare rigorosamente i poteri in corso, i poteri costituiti che avevano corso in quel tempo. Tutti i poteri a tutti i livelli possibili: dal bidello al capo del governo. Questa generazione si è dunque mal posto il problema del potere dal punto di vista rivoluzionario. Il rivoluzionario vuole il potere. Le rivoluzioni vogliono spodestare il despota, il potere costituito. Si tratta di un vizio di forma di quella generazione, ma anche di una sua consistente quota di generosità. / Sostanzialmente non lo faceva per prendere il posto di nessuno: voleva solamente prolungare ad oltranza la debolezza dei poteri di allora, perché dentro quella debolezza avveniva la democrazia[20].

De Luca definisce in questi termini la sua generazione:

Quei giovani di allora, staccandosi da casa, da città, da usanze andavano a inaugurare una loro città mobile, una polis orizzontale, ma scostumata e intrattabile verso l’alto della società, istituzioni, partiti, rappresentanze. Ognuno di loro entrava da amico (il termine ufficiale era compagno, il senso era il medesimo) in case sconosciute, nessuno era estraneo e il lontano si era fatto prossimo. Quella gioventù ha sperimentato il privilegio di conoscersi tutta, d’incontrarsi continuamente in moltitudine ovunque per le città d’Italia, in piazze, assemblee, carceri, per anni. Conosceva se stessa, la misura e tentava di spostare confini e molti ne ha spostati. Ed è andata all’urto frontale coi poteri di allora con una buona parte di popolo al seguito[21].

Così il narratore di La camicia al muro rievoca il suo arrivo a Roma nel ’68:

Non fui disperso perché intorno c’era una strana collera di gioventù, politica, ma niente da mischiare con i partiti. Spartita, irregolare, senza congressi, affiliazioni, tessere, aveva per campo la strada e per parlamento le assemblee. Sbatteva contro polizie, tribunali, prigioni. Fui dei loro quindi non mi sono disperso[22].

De Luca, che coltiva la figura della paronomasia (seguendo in questo l’esempio di Raffaele La Capria) definisce la propria generazione “amata” più che “armata”[23] e la chiama la “società sostituita” in quanto radicale alternativa alla società costituita[24]. Essa è stata per l’ebraista De Luca una generazione prontissima che ha risposto al richiamo prima ancora di essere chiamata (De Luca si rifà alla prolessi biblica: “Tutto ciò che ha detto Iod/Dio, faremo e ascolteremo”[25]), una generazione “davarista” in quanto ha fatto coincidere il “dire” col “fare”[26].

La parola “comunismo” non designa per De Luca l’utopia della società senza classi vagheggiata dai rivoluzionari né tanto meno il “socialismo reale”, sinistra perversione di questo ideale, bensì la comunità spontanea alla quale egli ha appartenuto, come spiega nella prima lettera a Angelo Bolaffi:

Dammi torto, non l’ho capito mai il comunismo se non era quella comunità coinvolta, capace di contagio, di suscitare affetto e furia nel popolo d’intorno, che produceva gesti non chiamati, non voluti, solo fraternità brusca, efficace e sciolta subito al mattino, con un saluto indelebile[27].

E nel dialogo con Attilio Scuderi, ribadisce:

Per me comunismo è una comunità italiana di cui ho fatto parte per tanti anni. Posso dire di aver avuto esperienza del comunismo, come cosa realizzata, non come attesa messianica. L’ho conosciuto. Altrove era una dittatura, da noi erano, al contrario, le forze che sabotavano sistematicamente tutti i poteri costituiti[28].

Sembra che vi sia una specie di ipostatizzazione della propria generazione da parte di De Luca. Per quanto compatta e coesa possa essere stata, non sono mancate all’interno di questa gioventù ribelle correnti, antagonismi, contrasti, lotte d’influenza, e non è stato affatto trascurabile il ruolo giocato dai singoli, dalle cosiddette personalità carismatiche, nella direzione del movimento al quale ha aderito anche quando questa si definiva collettiva e fedele alla pratica della democrazia diretta. Del resto non sono assenti i nomi propri nella testimonianza di De Luca, ma, occorre sottolineare, non compaiono tanto come protagonisti delle vicende, eroi delle gesta, quanto come vittime, capri espiatori di quella che lo scrittore considera la vendetta dei vincitori.

Vero è che i diversi attori coinvolti nell’esperienza della lotta comune hanno potuto per più di dieci anni immedesimarsi totalmente nella loro “parte”, conferendole una vera e propria autonomia soggettiva.

Nota Attilio Scuderi che “la narrativa di De Luca punta […] alla costruzione di un’epica del ’68”[29]. La dimensione epica della narrativa deluchiana risiede sicuramente nell’assumere il soggetto collettivo come protagonista delle vicende e nell’enfatizzare la dimensione eroica della sua azione. Fedele alla tradizione della lettura romantica (“aberrante” in senso echiano[30]), del capolavoro di Cervantes, De Luca chiama “donchisciottesco” l’impegno dei suoi ex compagni di lotta i quali vengono da lui definiti “invincibili”. L’espressione essendo stata spesso fraintesa, De Luca puntualizza:

Invincibili sono quelli che non si lasciano abbattere, scoraggiare, ricacciare indietro da nessuna sconfitta, e dopo ogni batosta sono pronti a risorgere e a battersi di nuovo[31].

Invincibili sono quindi gli irriducibili, quelli che, negli anni del riflusso, non si sono “adeguati”, quelli che sono rimasti, secondo un’altra espressione di De Luca, “inservibili”[32].

In Altre prove di risposta, De Luca torna sulla parabola della propria esperienza:

Ho potuto incontrare la mia età, centinaia di coetanei già solo in quello scorcio d’autunno. […] A quella folla ho appartenuto quando mi ero staccato da tutto e non ero più di niente. Si può appartenere a una folla? In quell’anno sì, e da quell’anno in poi, fino al suo scioglimento, che per me fu l’autunno dell’ottanta a Torino, nell’ultima resistenza di fabbrica. Con le persone insorte bruscamente nell’anno ’68 ho debito di riconoscenza. Ho avuto la sorte di avere diciotto anni insieme a loro. La versione ufficiale è che fu un’ubriacatura. So che le sbronze fanno vacillare. L’anno ’68, diciottesimo mio, alla mia andatura dà ancora, invece, un fondamento[33].

Nella sua seconda lettera ad Angelo Bolaffi, De Luca rievoca la fine del blocco della Fiat Mirafiori di Torino, colla quale si chiuse il decennio operaio:

La mia gioventù e la mia parte si è chiusa a trent’anni sulla soglia del decennio ottanta e sull’uscio di una porta di fabbrica sbarrata da me e dall’ultimo resto del pronome noi, unica fedeltà che ho conosciuto. La mia gioventù e la mia parte si è chiusa su quelle ultime insonnie comuni. Poi ognuno di quelli che erano ancora lì, restò sveglio per conto suo[34].

La fine della militanza coincide per De Luca con quella della gioventù; l’espressione “la mia gioventù” non designa qui solo l’età ma anche il complesso dei coetanei coi quali lo scrittore ha condiviso l’avventura politica. De Luca chiama “l’ultimo resto del pronome noi” il gruppo di compagni coi quali egli ha vissuto quell’esperienza conclusiva. Quello del “resto” è un concetto centrale nel pensiero di De Luca. L’ebraista, attento agli anagrammi biblici in un articolo di Alzaia accosta resto (“shérit”) e principio (“reshìt”), individuando nel resto un possibile principio[35]. Una speranza nel futuro che compensa la malinconica constatazione della fine di un percorso.

Il narratore de Il conto si richiama all’episodio biblico del diluvio universale per rievocare la liquidazione dell’occupazione della Fiat Mirafiori:

Ero a Torino dove stava finendo in una sola stagione di foglie scrollate tutto l’incominciato di politiche aspre, antagoniste, di una generazione. Sbarravo insieme ad altri operai i cancelli di una fabbrica per urto e resistenza contro un diluvio di licenziamenti. Durammo una quarantena e una quarantina di notti e giorni, quanto la cataratta di Noè, noi senz’arca. / Quando si ritirarono le acque, gli operai restarono fuori. La storia del decennio di forza e di sollievo operaio finiva lì. La storia sa tradire, non c’è da brontolare, basta esserci stati dentro e averle dato la pesata giusta[36].

Il trattamento del topos diluviale non è qui privo di ambiguità: esso suggerisce il carattere eletto dello sparuto gruppo impegnato nella resistenza e nel contempo evidenzia l’impotenza di questo “resto” di una generazione di fronte a forze incontrastabili. Sebbene gli irriducibili reggano per quaranta giorni, la fabbrica sbarrata si rivela incapace di assolvere la funzione protettiva dell’arca e non regge alla prova del “diluvio di licenziamenti”. In altri termini, il riflusso non coincide con la possibilità di una nuova alleanza ma solo con la conclusione di un’epoca.

Riparazione e ripetizione

Per giustificare la sua partecipazione al movimento studentesco del ’68 e il suo successivo impegno nella sinistra rivoluzionaria, De Luca adduce l’esigenza morale avvertita dalla sua generazione di lavare il disonore della precedente, colpevole di aver aderito al fascismo o di essere rimasta passiva nei suoi confronti rendendosi così direttamente o indirettamente complice dei crimini ad esso imputabili. Combattendo lo stato democristiano considerato erede storico del fascismo, i figli intendono riscattare i padri.

Una delle voci di Aceto, Arcobaleno, l’amico terrorista del narratore protagonista afferma:

Da ragazzo scorgevo violenze dappertutto. Dagli scaffali di mio padre estraevo libri sulla guerra e crescevo sentendo di dover rendere conto di ferite, di offese che un’altra generazione aveva fatto ricadere su quelle a venire. Il novecento era diventato un secolo antico, pieno di maledizioni. Quando vidi nelle strade i colpi, gli urti, ero già pronto[37].

Nell’articolo “Plancton”, De Luca ricorda:

A scuola la storia si fermava sulla soglia del secolo, come se avesse scrupolo di disturbare i lavori in corso. A stento si spingeva fino alla guerra del ’15/’18. Non mi bastava, volevo imparare il passato appena prossimo che aveva lasciato tracce di terrore e di scampo nelle persone care e nella città. Presi a leggere i libri di mio padre. Se ne procurava molti che descrivevano i suoi anni, la storia feroce che gli era passata addosso sfiorandolo, mettendolo da parte. Nella mia presunzione di adolescente volevo saperne più di lui. Ma quello che leggevo non era più storia […]. Era improvvisamente vita, vita recente, macellata di fresco […]. Non imparavo una lezione, ricevevo invece senza saperlo, un’educazione sentimentale. Rispondevo dentro di me con ire, sdegni, commozioni e amore. Non so se è stato un bene […]. So invece che i racconti degli adulti mi spinsero a cercare il loro passato e mi trasmisero la responsabilità di esserne figlio e seguito[38].

Nell’articolo “Generazioni” di Alzaia, De Luca afferma a proposito dei padri:

Innestavamo la nostra età sulle rovine della loro. Si era figli per questo: per rilevare i torti, le mancanze loro e tentarne il riscatto. Si eredita davvero solo il debito[39].

Commentando questo brano in Altre prove di risposta, De Luca ribadisce:

Le colpe dei padri, dei poveri nostri padri contemporanei di quelle infamie, ricadevano su di noi. Questo sentivo, questa è stata l’educazione sentimentale che ho avuto e che mi ha spinto negli anni seguenti a rispondere alla chiamata di piazza della mia generazione[40].

Nella prima lettera indirizzata a Angelo Bolaffi, De Luca sviluppa l’argomento:

La lettura s’induriva e non so spiegare, Angelo, perché anch’io mi sentii responsabile di tutto quel male. Non so se qualcosa di simile è accaduto a te, ad altri coetanei. L’importanza di appartenere ai posteri non fu un’attenuante. Le colpe dei genitori, anche solo di omissioni, mi salirono addosso, forse perché erano troppo grandi per esaurirsi in una sola generazione. L’impotenza si costituì parte civile contro tutta la leva dei padri. Insieme ai centimetri saliva il sentimento frontale del rispondere: dalla pietà alle collere. […][41]

Prosegue:

Mio padre […] aveva trascorso gli anni sporchi rasentando il carnaio, preso e messo in un cantuccio dalla storia impazzita d’Europa. Partito volontario, “un fesso” diceva contro di sé, nel corpo degli alpini, spedito in Albania, rientrato a Napoli per l’otto settembre in licenza per casa bombardata e improvvisamente libero per l’arrivo degli americani: la guerra era finita, almeno lì, e pensò ai fatti suoi. Se n’è rammaricato per il resto della vita e si riempiva gli scaffali di quella storia che l’aveva sfiorato e poi messo da parte per sua misericordia e accidente. Volevo rispondere anche per lui, perché si eredita del tutto solo il debito, l’inadempienza o il torto del padre. In questo per me si è figli, discendenti da un obbligo e non spavalda primizia, cima di niente. / A lui non era nemmeno capitata l’occasione di dare aiuto a un perseguitato politico, a un ebreo in fuga. Fu così che si prestò volentieri a ospitare negli anni settanta dei latitanti di Lotta Continua, tra i quali anche Giorgio Pietrostefani. Ma questo fu anni dopo aver visto suo figlio scomparire su un treno[42].

Il padre del narratore protagonista di Tu, Mio si esprime in questi termini:

Fai bene ad interessarti del recente passato, è un tuo diritto […]. Però ho l’impressione che tu non lo faccia in modo sano. Insomma è buffo dirlo, ma mi sembra che tu voglia intervenire sul passato per correggerlo. Tu lo critichi con l’intento di cambiarlo, ma non si può. Nemmeno un Dio può farci niente. È già molto proteggere il presente dagli sbagli non fare un male da dover riparare. […] Sono stato uno dei tanti e non uno dei pochi […]. Se tu vuoi diventare uno dei pochi, rivolgiti al tuo presente, lascia stare il passato. Non c’eri, non ne sei responsabile.[43]

Non solo il figlio non può sostituire il padre e riparare il male da lui commesso in passato, perché il passato non può essere in nessun modo “corretto”, ma nel momento stesso in cui tenta di riparare il male passato si espone colla propria azione a ripeterlo nel presente.

Per De Luca, “rivolgersi al proprio presente” significava, all’inizio degli anni Settanta, combattere un paventato risorgere del fascismo. A proposito del radicamento di Lotta Continua nel ’73, egli ricorda:

L’urgenza era l’antifascismo, e noi lo facevamo sul campo. […] Noi i fascisti a Roma li abbiamo sconfitti. Avanguardia operaia e Il Manifesto li consideravano un fenomeno secondario, da affrontare solo con l’autodifesa, ma per noi, almeno per me, era centrale. L’Italia era in mezzo a un Mediterraneo fascista, dal Portogallo alla Spagna alla Grecia, l’ipotesi di una recrudescenza di estrema destra era reale[44].

Nella prima lettera ad Angelo Bolaffi, De Luca spiega:

Roma era un campo di giovani in guerra. I fascisti reagivano al rovesciamento dei rapporti di prepotenza. Le truppe dell’ordine li consideravano una milizia d’appoggio[45].

Avendo Bolaffi espresso le sue riserve sull’analogia tra la lotta partigiana e il movimento di “resistenza” degli anni Settanta, De Luca ribadisce la centralità dell’antifascismo nella motivazione del proprio impegno:

Già, c’erano i fascisti. E avevano qualche buona ragione di credere in un ritorno dei loro sistemi: comandavano in Spagna, in Portogallo, in Grecia. Tutto un parallelo si aspettava da noi un allineamento. Eravamo antifascisti. E così funzionava a dovere la balla degli opposti estremismi. Ma quei fascisti erano truppa di complemento di poteri loschi e noi eravamo pubblici, assembleari, una folla che cominciava a sentire il bisogno di esser meno liquida, di non farsi sciogliere, di darsi le prime leggi fisiche di resistenza[46].

Il narratore di La camicia al muro afferma:

Roma era piena di guerra. Chi dice ch’era inventata, l’ha invece disertata. Non era obbligatorio battersi, ma c’era di che[47].

Per giustificare il ricorso alla violenza, il narratore di Annuncio mai spedito si richiama alla famosa formula dell’introduzione alla Critica della filosofia del diritto pubblico del giovane Marx, secondo cui “l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi”:

Quegli urti erano la critica, atti di una ragione dotata di forza di demolizione, perché è buona a questo la ragione. E quelli che non facevano così? Era gente che negava l’evidenza, si escludeva dal campo. Sceglieva lo stato, che in nessun caso è un’indicazione di moto[48].

Giocando sulla polisemia delle parole, De Luca contrappone la partecipazione al movimento all’accettazione dello stato delle cose, dello statu quo. La scelta dello stato, in questo senso è un aderire passivo alla forza d’inerzia della società. Ma “stato”, anche se è qui scritto senza la maiuscola, va anche inteso nella sua accezione politico-giuridica; in quanto la scelta dello statu quo coincide con quella dello stato democristiano; “scegliere lo stato”, in questo caso, vale rassegnarsi alla situazione cronica della “democrazia bloccata” rappresentata dall’egemonia della DC forte della sua consolidata strategia trasformista, strategia vincente fino al tentativo abortito del compromesso storico.

Una delle voci di Aceto, Arcobaleno, l’amico terrorista del narratore protagonista, che si definisce reduce di “una guerra minore” ricorda:

[…] finirono gli anni di quella politica degli urti, ci fu nel nostro paese una chiamata alle armi e io ne ho fatto parte. Ne sono uscito e sono tra i pochi militi rimasti ignoti che non devono nascondersi, dimenticato per chissà quale caso[49].

In uno dei luoghi più significativi del racconto, il personaggio accenna ad un dialogo col padre:

In occasione di un mio ritorno a casa […] ci contrastammo, per mia arroganza, intorno alle cose violente che succedevano nelle città. Le difendevo, mentre lui se ne ritraeva sconfortato. In mezzo all’urto dei giudizi abbassò la voce per riannodare l’intesa e mi disse: “Sei di una generazione che vuole rispondere a tutto. Allora ve lo chiederanno e dovrete rispondere di tutto”[50].

Il cambio di preposizione, il passaggio dal “rispondere a” al “rispondere di” racchiude il nodo problematico dell’impegno: rispondere alla “chiamata alle armi” significa dover rispondere del male che inevitabilmente il ricorso alla lotta armata comporta. Lo stesso personaggio ravvedutosi, denuncia l’esito tragico delle sue scelte e confessa le proprie colpe.

Nell’incipit dell’articolo “Dieci anni di latitudine”, De Luca afferma:

Ho preso parte a una generazione insorta. Per dieci anni essa ha ingombrato le strade d’Italia: si manifestò nell’anno di sbaraglio 1968, annata scadente solo per i vini, e si sfigurò nella primavera del ’78, nella strage di una scorta, nella condanna a morte, pena eseguita, del prigioniero politico Aldo Moro. La generazione che aveva imparato a battersi duramente nella pubblica via, si specializzò in agguati, trasformando la sua volontà di giustizia, in volontà di potenza. Assomigliò ai suoi avversari e il suo diritto si degradò in arbitrio[51].

Si potrebbe descrivere questo processo di degrado nei termini girardiani del mimetismo che porta gli avversari all’“indifferenziazione violenta”, quello che il filosofo francese chiama il “tragico scontro dei doppi”. Così le stragi di stato e quelle dei brigatisti finiscono col confondersi, rappresentando un unico “spreco” (per usare un concetto caro al nostro).

Attilio Scuderi rileva acutamente:

Il giudizio sul fenomeno del terrorismo ci pare […] sensibilmente oscillante. Talora, infatti, si giudica la lotta armata come la principale responsabile della degenerazione politica di un’epoca: è questo il caso delle parole del terrorista di Aceto, Arcobaleno, il quale riconosce negli “apparati costituiti per primeggiare” del movimento l’incapacità di contenerne l’ondata di violenza, l’incontrollabile “impulso all’arbitrio” che ne accelerò in modo radicale il fallimento e la deriva, facendolo assomigliare sempre più ai suoi avversari, in un esponenziale delirio di onnipotenza e volontà di potenza […]. Altre volte, invece, a difesa di una criminalizzazione indiscriminata di tutta una generazione, appare un repentino ridimensionamento del fenomeno terroristico, direttamente funzionale al recupero degli aspetti positivi della contestazione […].[52]

Ora per capire questa oscillazione, occorre ricordare che De Luca, all’interno di Lotta Continua, era tra quelli, minoritari, che “sollecitavano una linea meno rigida verso la lotta armata”[53]. In altri termini, sebbene non approvasse apertamente la scelta estrema rappresentata dalla militarizzazione del movimento rivoluzionario, egli non escludeva, a differenza di altri militanti, l’ipotesi del ricorso alla lotta armata quale ultima ratio.

Nel suo carteggio con Ovidio Bompressi pubblicato su MicroMega nel 1996, a proposito della celebrazione del processo Calabresi che vede imputati i tre dirigenti di Lotta Continua, Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e lo stesso Bompressi, De Luca sviluppa un’argomentazione singolare: se, da un lato, dà per scontata l’assoluta estraneità dell’amico all’omicidio del commissario Calabresi, dall’altro, nega che egli, in quanto partecipe del movimento di “resistenza”, possa essere ritenuto innocente:

Chiunque di noi di quel tempo, non solo Lotta Continua ma tutta la sinistra insorta, poteva ammazzare quel commissario senza dover formare per questo una banda armata […]. Perché chiunque di noi in quei nostri vent’anni poteva essere lì, allo sbaraglio di quel giorno […]. Lascia che ti condannino Ovidio, che la tua vita si inchiodi sulla loro porta, sulla loro vendetta di esecutori di una rappresaglia. Si elevano a giudici senza cessare di esser nemici. Hanno truccato le carte, ogni difesa avanti a loro è vana. Ma la loro iniquità non deve essere prova della tua innocenza. Dal lancio della prima pietra non siamo più stati innocenti. Resistenza e oltraggio erano i capi di imputazione di migliaia di arresti di quegli anni. Resistenza e oltraggio ai poteri è ancora la ragione degli inservibili. Noi siamo stati colpevoli di tutto, correi anche di quello che non abbiamo materialmente commesso[54].

Coerente con le sue premesse, De Luca sostiene che il “noialtri”, il “noi-soggetto” non si possa sottrarre alle proprie responsabilità collettive: è secondo lui l’intera generazione a dover rispondere delle scelte e dell’operato dei singoli.

È questo l’aspetto più discutibile dell’approccio olistico di De Luca: egli tende a mettere sullo stesso piano coloro i quali si sono macchiati di crimini di sangue e quelli che, pure non potendosi ritenere del tutto estranei al clima di violenza che vigeva in quegli anni, non li hanno commessi. Il rifiuto di ogni distinguo, la convinzione reiterata che la responsabilità sia da considerarsi collettiva invita a giudicare in blocco, a condannare o assolvere tutti gli attori senza distinzioni, senza lasciare altra alternativa.

In Sulla traccia di Nives, rievocando il proprio coinvolgimento nel processo Calabresi, De Luca ricorda:

A quel tempo rividi nelle aule di tribunale molti compagni perduti di vista, venuti ad affacciarsi su quel pezzo della loro storia politica. Seguii il processo, ascoltai difese affannose, discolpe, ricerche di alibi per dire: io non c’ero. Eravamo ovunque nell’Italia di allora, un sistema vascolare che considerava i capillari più importanti del cuore. In quell’aula ascoltavo chi cercava in un calendario di mille settimane prima (tante fanno diciotto anni) i giorni in cui non c’era. A me cresceva al contrario l’urgenza di dir c’eravamo tutti, noi rivoluzionari di un’Italia in subbuglio in ogni posto. Provai lì disgusto per gli alibi. Ascoltai quelle udienze da una distanza remota, seduto in un mercato di giustizia dove l’accusa faceva e disfaceva, e la difesa stava in trincea replicando al dettaglio. […] Alla fine di molte sentenze fu stabilito che noi, Lotta Continua, avevamo ucciso Luigi Calabresi. Nel sacco dei prigionieri restarono in tre, uno, Ovidio Bompressi, amico[55].

Mentre nei testi degli anni novanta, De Luca contrappone il rapporto di coinvolgimento che ebbe la sua generazione nei confronti della storia dei genitori all’indifferenza dimostrata dalle nuove generazioni non solo per il passato recente ma anche per il proprio tempo, indifferenza che avrebbe reso ogni confronto impossibile tra i generosi sessantottini e gli scettici post-moderni chiusi nel loro individualismo, ne Il contrario di uno scritto dopo gli avvenimenti del G8 del 2001, egli avverte nel movimento di Genova l’emergenza di una generazione paragonabile alla sua per impegno e coscienza politica:

Tornano, è tornata, adesso ce n’è un’altra che agisce come un corpo, si muove da generazione. Altre età venute prima di lei si sono aggiustate a figlie del loro tempo, hanno aderito a esso in convinta ubbidienza. Questa di adesso, come la tua, fa il contrario, passa contropelo, perciò è contemporanea di se stessa, estemporanea al resto. Si occupa del mondo, anziché del condominio. Tu la segui, vai dietro alle sue mosse e alle licenze che le autorità si prendono contro di lei[56].

Tuttavia, secondo De Luca, la generazione contestatrice del Duemila si distinguerebbe da quella degli anni Settanta in quanto rifiuterebbe ogni ricorso alla violenza:

Tu con le tue passate notizie di piazze arrostite affumicate sei presso di lei scaduto: questa generazione ammette di subire violenza ma non vuole sporcarsene reagendo. Vuole che l’aggressione sia da una parte sola, snuda il loro diritto e lo mostra allo stato di natura, per quello che è: sopraffazione[57].

Stando a quello che sostiene De Luca, il ritorno sarebbe di tipo dialettico e segnerebbe, conformemente al modello vichiano del ricorso, una svolta e un progresso.


[1] “Il dialogo tra De Luca e Stefano Tassinari” [http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=112], consultato in data 17 gennaio 2011.

[2] “Racconti a voce”, in Napòlide, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2006, p. 54-55.

[3Opera sull’acqua, Torino, Einaudi, p. 31-32.

[4Solo andata, Rime che vanno troppo spesso a capo, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 50. Vedi anche Gli inferociti. A Vincenzo Andraous detenuto di lungo corso, p. 48.

[5L’urgenza della libertà. Il Giubileo e gli anni sacri nella loro stesura d’origine, Napoli, Filema, 1999, p. 6.

[6Aceto, Arcobaleno (1992), Milano, Feltrinelli, 1995, p. 26.

[7Napòlide, Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2006, p. 67.

[8] “I miei avevano conosciuto i sabati del regime, le adunate obbligatorie nei ranghi dei figli della lupa, le parate con labari e aquile romane, caricature e addobbi spolverati da uno scheletro della storia. Quella patria con il punto esclamativo si era presa sul serio al punto di credersi guerriera. Napoli ascoltò la sirena di allarme aereo la sera della dichiarazione di guerra, la parola patria presentava in fretta il conto. Ci sono vocaboli che diventano inservibili. Insieme al “lebensraum”, lo spazio vitale, preteso dall’espansionismo tedesco, anche patria finì sotto le macerie e cingoli dei vincitori, insieme a una monarchia lesta a disertare.” Napòlide, op. cit., p. 66-67.

[9] Questa tesi è in sostanza quella che Ernesto Galli Della Loggia sviluppa nel suo famoso saggio: La morte della patria (Bari, Laterza, 1998).

[10] “Perciò eravamo patrioti del mondo e ci impicciavamo delle sue guerre. Su gran parte di quei volantini era scritto il nome di un lontano paese dell’Asia: Vietnam.” Il contrario di uno (2003), Milano, Feltrinelli, 2005, p. 26.

[11Napòlide, op. cit., p. 68.

[12] Ci si potrebbe interrogare sull’ipotetica innocenza storica delle madri che De Luca dà per scontata e che giustifica ai suoi occhi il sostitutivo riferimento alla màtria, ma si tratta probabilmente di miti irrinunciabili.

[13Altre prove di risposta, Napoli, Dante & Descartes, 2000, p. 53.

[14Il contrario di uno, op. cit., p. 42.

[15Pianoterra, Macerata, Quodlibet di Tempi Provinciali, 1995, p. 27.

[16Alzaia (1997), Milano, Feltrinelli, 2004 (edizione ampliata), p. 86.

[17Pianoterra, op. cit., p. 28.

[18] “Una sera mi chiama una ragazza da un’altra città. L’indomani lei e una dozzina di coetanei metteranno il loro corpo di traverso a ruspe e polizie che vengono a sgomberare un campo di nomadi. […] Alla tua età io appartenevo alla più vasta stesura del pronome “noi” che una generazione di questo paese abbia mandato in piazza. Non ci voleva molto a stare saldi in mezzo ad una baraonda di divise. Oggi tu con la tua dozzina sei più forte di quel noi.” “Una nuova dozzina”, in Un papavero all’occhiello senza coglierne il fiore, Montereale Valcellina, Circolo Menocchio, 2000, p. 44-45.

[19] Jean-Paul Sartre, Critica della ragione dialettica (1960), Milano, Il Saggiatore, 1963, p. 384.

[20] “Il dialogo tra De Luca e Stefano Tassinari”, op. cit., p. 4.

[21] “La pulce che manca”, Un papavero all’occhiello, op. cit., p. 96-97.

[22Il contrario di uno, p. 41-42.

[23] “L’età ‘davarista’”, Un papavero all’occhiello, p. 86.

[24] “Al tempo delle osterie”, ibid., p. 132.

[25] “Precedenza del fare”, ibid., p. 120.

[26] “L’età ‘davarista’”, ibid., p. 86.

[27] Erri De Luca, Angelo Bolaffi, Come noi coi fantasmi. Lettere sull’anno sessantottesimo del secolo tra due che erano giovani in tempo, Milano, Bompiani (Passaggi), 1998, p. 16. Vedi anche Annuncio mai spedito in Il contrario di uno, op. cit., p. 54.

[28] “Dialogo con Erri De Luca”, in Attilio Scuderi, Erri De Luca, Fiesole, Cadmo, 2002, p. 125. Vedi anche Senza sapere invece, Roma, Nottetempo, 2008, p. 8 e 12.

[29] Attilio Scuderi, op. cit., p. 88.

[30] Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi (1979), Milano, Bompiani, 2000, p. 177.

[31Chisciotte e gli invincibili, Roma, Fandango, 2007, p. 7.

[32] “Aquilone”, in Alzaia, op. cit., p. 15. Vedi anche Altre prove di risposta, op. cit., p. 51.

[33Altre prove di risposta, op. cit., p. 53. Vedi anche p. 46-47.

[34Come no coi fantasmii, op. cit., p. 72. Vedi anche “Popolo di cancelli”, in Un papavero all’occhiello, op. cit., p. 81.

[35] “Resto”, in Alzaia, op. cit., p. 96.

[36Il contrario di uno, op. cit., p. 87. Vedi anche Conversazione di fianco, in In alto a sinistra (1994), Milano, Feltrinelli, 1995, p. 77; Tre cavalli (1999), Milano, Feltrinelli, 2001, p. 16.

[37Aceto, Arcobaleno, op. cit., p. 32.

[38] “Plancton”, in Pianoterra, op. cit., p. 15-16.

[39Alzaia, op. cit., p. 52.

[40Altre prove di risposta, op. cit., p. 23. Vedi anche Ora prima, Magnano (BI), Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, 1997, p. 119; Tu, Mio (1998), Milano, Feltrinelli, 2000, p. 108.

[41] Erri De Luca, Angelo Bolaffi, Come noi coi fantasmi, op. cit., p. 19.

[42Ibid., p. 20-21.

[43Tu, Mio, op. cit., p. 109.

[44] “Prendiamoci la città”, in Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la Rivoluzione, 1968-1978: storia di Lotta continua, Milano, Mondadori, 1998, p. 107.

[45Come noi coi fantasmi, op. cit., p. 13.

[46Ibid., p. 70.

[47Il contrario di uno, op. cit., p. 45.

[48Ibid., p. 55.

[49Aceto, Arcobaleno, op. cit., p. 29-30.

[50Ibid., p. 46-47.

[51Pianoterra, op. cit., p. 27.

[52] Attilio Scuderi, Erri De Luca, op. cit., p. 34-35.

[53] Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, op. cit., p. 283.

[54] Erri De Luca, Ovidio Bompressi, Vivere con il terremoto, in MicroMega, 2, 1996, p. 230. Citato da Attilio Scuderi in Erri De Luca, p. 33.

[55Sulla traccia di Nives, Milano, Mondadori, 2005, p. 105.

[56] “Vento in faccia”, in Il contrario di uno, op. cit., p. 17-18.

[57Ibid.


Citer cet article :

Nicolas Bonnet, « Erri De Luca, l’invincibile », colloque Littérature et "temps des révoltes" (Italie, 1967-1980), 27, 28 et 29 novembre 2009, Lyon, ENS LSH, 2009, http://colloque-temps-revoltes.ens-lsh.fr/spip.php?article143